La mindfulness, ossia la consapevolezza di sé e della realtà nel momento presente, dei propri pensieri ed emozioni nel “qui e ora”, si è rivelata uno strumento terapeutico molto utile per alleviare la sofferenza e il dolore di pazienti affetti da diversi tipi di patologie, psicologiche e non.
Gli studi condotti sugli effetti di questo approccio hanno dimostrato come esso promuova il benessere delle persone, faciliti il processo di guarigione, riduca la percezione del dolore e porti al raggiungimento di un maggior equilibrio interiore.
Per saperne di più, abbiamo intervistato la dottoressa Gema Noelia Moreno, psicologa e psicoterapeuta nell’ambulatorio di Psicologia di Humanitas Medical Care Arese, Docente AIAMC e Supervisore EMDR esperta in Psicotraumatologia.
Dottoressa, di che cosa si occupa nell’ambulatorio di Humanitas Medical Care Arese?
“Oltre all’intervento psicoterapeutico standard (che prevede sedute di 45-60 minuti ciascuna) rivolto a diversi tipi di patologie, quali disturbi d’ansia e panico, disturbi della personalità, disturbo da stress postraumatico, disturbi dell’umore, sostegno a malati oncologici e caregiver, dipendenze, problemi sessuali e di coppia ecc., propongo una forma di sostegno attraverso la mindfulness, che si occupa della gestione dei pensieri per passare da uno stato di sofferenza a una percezione soggettiva di benessere”, risponde la dottoressa.
Ci può spiegare di che cosa si tratta?
“La mindfulness è un approccio incentrato sull’imparare a stare “qui” e “ora” senza giudizi e ansie, senza essere oppressi da ciò che ci è successo e preoccupati per ciò che ci accadrà”, spiega l’esperta.
Si tratta di una strategia, che ha tutta una serie di valenze empiriche a monte e che va a sostegno di molti tipi di disturbi, per insegnare alla persona a riconoscere i pensieri che affollano la sua mente e a imparare a tollerarli, a non negarli o respingerli. È un processo mentale che consente al soggetto di diventare sempre più abile nell’acquisire quegli strumenti che gli permettono di andare avanti: una volta che sa che cosa ha in mente e qual è l’effetto che produce, che impara a “stare lì” e a riconoscere i suoi pensieri, come conseguenza immediata tenderà ad avere una diminuzione dei pensieri stessi, e quindi degli impulsi e dei sintomi più ansiogeni. “L’idea è quella di staccare il pilota automatico”, sintetizza la dottoressa. Si è dimostrato che la nostra mente non è molto efficace quando deve fare più cose in contemporanea in maniera non consapevole o “frettolosa”; quindi bisogna imparare a poter staccare, fare meno cose nello stesso momento, per rendere più funzionali quelle che si fanno separatamente.
A quali ambiti si rivolge la mindfulness?
“Io mi sono occupata del disturbo borderline di personalità, la cui terapia si basa su un approccio cognitivo-comportamentale abbinato alla mindfulness. Ad esempio, il paziente affetto da questo disturbo non può gestire l’impulso se non è in grado di riconoscere che questo arriva, che non va incontro alla morte se lo accetta, che é capace di imparare un nuovo modo per stare nel dolore per poi uscirne senza danni”, spiega la professionista.
“Oggi – prosegue – la pratica della mindfulness è sfruttata in campo medico-terapeutico e si applica in molti ambiti: viene proposta dalle palestre, dagli educatori ecc.; in ospedale, nelle cliniche e nei centri sanitari ha una struttura più clinica, in genere molto più approfondita e strutturata”.
Come è nata la mindfulness e a quali soggetti si rivolge principalmente?
In Occidente, all’inizio degli anni Settanta, Jon Kabat-Zinn, ha sviluppato un protocollo strutturato della mindfulness (MBSR), lavorando all’inizio con pazienti terminali o affetti da dolore cronico e in seguito allargandosi a tutta una serie di patologie (disturbi della personalità, depressione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo compulsivo, attacchi di panico, problemi di coppia, disturbi dell’umore, ecc.), allo scopo di introdurre la meditazione di consapevolezza e di tolleranza del dolore come intervento in contesti clinici. “Nella fase terminale della malattia – spiega la psicologa – il dolore è difficile da tollerare e da gestire con una semplice tecnica di rilassamento”. Grazie a mindfulness, che aiuta a stare in ciò che accade nel presente, la persona impara a non avere pensieri come “ho sopportato il dolore per tanti giorni e non è ancora finito”, ma fa in modo che il proprio dialogo interiore si soffermi sul “qui e ora”. Si è scoperto che gestire il dolore in questo modo rende tutto molto più tollerabile. Il corpo non si sente più in un processo di lotta e tende a sciogliere la muscolatura e, quindi, a sentirsi meglio.
Dolore fisico e anche mentale quindi?
“Esattamente – afferma l’esperta – perché è la componente mentale che rende il dolore fisico insopportabile”. Riuscendo a scindere quello che è il pensiero, la realtà, dando una definizione più obiettiva del “qui e ora”, il corpo è in grado di reggere maggiormente ai disturbi, dolori e disagi.
La mindfulness non ha solo senso usarla come approccio per gestire le difficoltà, ma attualmente viene usato sempre più spesso anche per potenziare delle risorse sia a livello sportivo agonistico che nelle grandi aziende (formando il personale in maniera tale da renderli più resilienti e quindi più funzionali e meno stressati).
Come si svolge nella pratica il programma di mindfulness?
Nelle sedute di gruppo, in cui partecipano dieci persone al massimo, il protocollo prevede otto incontri (di un’ora e mezza o due ciascuno) con frequenza settimanale, per una durata totale, quindi, di due mesi.
Ogni settimana si fanno degli esercizi basati sulla respirazione o su un tipo di gestione del pensiero. Si tratta di psico-educazione ed esperienza in vivo, in modo che in gruppo si può condividere, fare domande e, in questo modo, approfondire la conoscenza. “Durante la settimana di devono eseguire dei compiti che verranno rivisti nella seduta successiva”, spiega la dottoressa.
E aggiunge: “Nella seduta individuale, invece, ogni settimana si sceglie il tipo di esercitazione specifico per quella persona e si approfondiscono dal punto di vista psico-educativo i vari aspetti”.
Alla fine del corso, il paziente può seguire autonomamente il suo percorso?
Si fa in modo che la persona, tramite l’allenamento, ossia i compiti, gli esercizi eseguiti (per esempio, mente concentrata su un oggetto), possa abituarsi a rendersi conto come la mente sta su un oggetto ma si sposta su tantissimi altri, ed essere in grado di continuare in autonomia il proprio percorso. Se l’esercizio, invece, è “stai sul respiro”, il respiro serve a catturare l’attenzione della propria mente, che produce pensieri. “Quindi non si tratta di scacciare i pensieri, ma di riconoscerli”, conclude la dottoressa Moreno.
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