Oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Lingua Madre (21 febbraio), parliamo di bilinguismo. Un fenomeno in forte crescita, in particolare negli ultimi vent’anni. Conoscere una seconda lingua è infatti una competenza ricercata e riconosciuta come un punto di forza. Tuttavia, quando si tratta di bilinguismo in bambini con difficoltà di linguaggio si tende a credere che le due lingue possano creare una maggiore difficoltà o confusione. Ma è davvero così?
Preservare la lingua materna, la lingua di “casa”, è un modo per mantenere viva la propria identità personale, la storia della propria famiglia. Non esistono lingue di Serie A o Serie B. Ognuna vale la pena di essere trasmessa. Abbandonare una lingua significherebbe in un certo senso dimenticare le proprie origini e negare ad un bambino la possibilità di avere una visione più ampia e creativa della propria persona. Un punto di vista differente sul mondo, fatto anche di storie e tradizioni tramandate da generazioni e generazioni che non possono fare altro che arricchirli. Nelson Mandela diceva: “Se parli ad un uomo in una lingua a lui comprensibile, arriverai alla sua testa. Se gli parli nella sua lingua, arriverai al suo cuore”.
Ce ne parla la dott.ssa Laura Stella, logopedista presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano.
Il bilinguismo è un fenomeno molto vario ed è difficile trovare bambini bilingue che presentano esattamente le stesse caratteristiche: un bimbo esposto all’italiano e all’inglese dalla nascita ed inserito in una scuola bilingue avrà una competenza ed un uso diverso da un bambino esposto all’inglese fino ai 3 anni e poi inserito in una scuola italiana. Il loro grado di competenza non sarà lo stesso. Il bilinguismo può essere infatti descritto sulla base di: momento della prima esposizione, contesto di esposizione e grado di competenza.
Considerando il momento della prima esposizione possiamo distinguere il bilinguismo precoce, se il bambino è esposto a due lingue fin dalla nascita (per esempio quando i genitori hanno una lingua madre diversa), e il bilinguismo tardivo se il bambino viene esposto alla seconda lingua dopo i primi 2/3 anni di vita (ad esempio un bimbo che a casa parla lo spagnolo e viene inserito in un asilo italiano).
Considerando invece il contesto di esposizione distinguiamo il bilinguismo familiare, quando le due lingue vengono parlate in famiglia, dal bilinguismo scolastico, quando la seconda lingua viene parlata solo a scuola.
Questi fattori incidono sul grado di competenza che il bambino avrà nelle due lingue. Per acquisire una lingua, infatti, il bambino deve essere esposto ai suoni del linguaggio fin dalla nascita, momento in cui il suo cervello è estremamente ricettivo rispetto ai suoni del linguaggio. Inoltre, l’esposizione deve essere costante ed avvenire in un contesto che non sia formale (ovvero senza che ci sia una spiegazione delle regole e della struttura della lingua). Se la lingua viene appresa a scuola in un contesto formale per un’ora a settimana non si può parlare di bilinguismo ma di apprendimento di una lingua.
Sulla base del grado di competenza si distingue il bilinguismo bilanciato, quando la competenza è simile nelle due lingue, e bilinguismo dominante, quando il bambino è più competente in una delle due lingue.
Intorno al bilinguismo, ed in particolare quando questo si associa ad un disturbo di linguaggio, ruotano alcuni falsi miti.
Il bilinguismo causa un ritardo di linguaggio?
Non ci sono studi che evidenzino una correlazione tra bilinguismo e difficoltà di linguaggio. I bambini bilingue raggiungono infatti le principali tappe di sviluppo linguistico negli stessi tempi: la lallazione tra i 6-10 mesi, le prime parole intorno all’anno e le prime combinazioni di parole intorno ai due anni. Può succedere che all’apparenza i bambini bilingue abbiano un vocabolario ridotto in entrambe le lingue. Ma nel valutare il vocabolario in presenza di bilinguismo è importante considerare la sua competenza complessiva (vocabolario della prima lingua+vocabolario della seconda lingua): se conosce, utilizza e comprende la parola “apple” ma non “mela” questa fa comunque parte del suo vocabolario complessivo.
Il bilinguismo confonde il bambino?
Un bimbo che utilizza due lingue nella stessa frase non sta manifestando un disturbo di linguaggio. Questo fenomeno si chiama “code-mixing” ed è fisiologico nella popolazione bilingue (Ad esempio “mamma voglio an apple”).
In realtà questa abilità è una strategia comunicativa positiva e adeguata: il bambino, infatti, sta colmando la lacuna che ha in una lingua con la lingua per lui predominante.
Questo fenomeno tende a ridursi nel tempo ma non è detto che si estingua del tutto e, soprattutto, non è un sintomo di un disturbo di linguaggio. Anche adulti bilingue possono talvolta presentare questi episodi.
Meglio eliminare una delle due lingue?
No, il bilinguismo non causa né peggiora il disturbo di linguaggio. Eliminando la lingua madre dei genitori (favorendo quella utilizzata nella scuola ad esempio) obbliga il genitore a parlare in una lingua in cui non è pienamente competente. Abbiamo detto che il linguaggio viene acquisito dai bambini secondo il modello fornito dall’adulto. Se il genitore parla al bambino in una lingua che non è la sua potrebbe dare al bambino un modello scorretto che renderà più complessa l’acquisizione.
Concludendo, il bilinguismo non è né la causa, né peggiora lo sviluppo del linguaggio di un bambino. Vari studi confermano come la presenza del bilinguismo a livello cognitivo sia una risorsa per il bambino e per l’adulto. Tuttavia se vengono notate delle difficoltà nel raggiungimento delle tappe di sviluppo del linguaggio è importante rivolgersi ad uno specialista che possa valutare ogni caso specifico.
Inoltre, se una difficoltà di linguaggio sembra essere maggiore in una delle due lingue è importante valutare l’esposizione che il bambino ha avuto: il bambino acquisisce una lingua sentendo l’adulto parlare. Se l’esposizione non è stata sufficiente (sia come tempi sia come qualità) il bambino potrebbe non aver acquisito adeguatamente la lingua.
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